Non era facile prevedere per i Sigur Rós, dopo le suggestioni pop del vivace (ma solo parzialmente riuscito) Með Suð Í Eyrum Við Spilum Endalaust, un ritorno così convinto all’Islanda concreta delle distese lunari e delle meraviglie geologiche, da sempre evocata negli epici chiaroscuri in crescendo delle loro canzoni, grondanti luce ed energia, ma con quel tocco malinconico che accompagna i momenti più intensi della band di Reykjavík.

Anticipato dal singolo Ekki Múkk, brano coerente col mood generale che permea l’opera, il nuovo Valtari si presenta relativamente breve (al netto di alcune bonus track previste), ispirato ed in punta di piedi, quasi a non voler disturbare l’attesa dell’alba nordica, del cui caldo abbraccio mattutino sembra essere ideale colonna sonora. Una band che con la mente, ma soprattutto col cuore prova a ripercorrere, con risultati globalmente soddisfacenti, il miracolo artico insito nel capolavoro Ágætis byrjun, ma con una dilatazione assoluta della loro poetica verso lidi ambient e concessioni ormai minime al post-rock di cui sono stati eccelsi maestri.

Ciò è evidente sin dal paradisiaco attacco dell’iniziale Ég anda, che distende tappeti di placido torpore che sa appagare l’anima già vessata dalla frenesia del quotidiano e riconciliare col creato, attraverso anche gli affreschi di canzoni come Varúð, il cui canto glorioso sembra testimoniare che lì, in qualche limbo negli inconcepibili confini dell’esistente, c’è ancora un dio che non ha mai smesso di piangere lacrime d’oro.

La magia procede col candore pop di Rembihnútur e gli spazi immensi suggeriti da Dauðalogn, tra rocce fumanti pulsanti di vita e stormi di fulmar in volo, mentre da Varðeldur in poi il gorgheggio di Jónsi, che qua riecheggia etereo in lontananza come il canto di una balena che emerge possente tra i mari del nord, sfuma sempre più fino a scemare del tutto nella coda strumentale del disco, formata dalla title-track e dalla conclusiva Fjögur píanó, soffusa ballata pianistica che avrebbe potuto essere la base per un nuovo gioiello pop dei Sigur Rós.

Ma a conclusione del viaggio, appare più che mai evidente che non era questa la priorità degli islandesi, quanto piuttosto l’urgenza di ritrovare e far proprio l’incanto artico della loro Terra di Mezzo, dove fra luci fioche e notti eterne la realtà può abdicare alla magia, e anche contemplare l’orizzonte e scorgervi una nave che si libra in volo sulle acque può non essere un sogno.

Questa recensione è tratta da Players 15, su cui abbiamo pubblicato anche uno speciale dedicato al gruppo. Scaricatelo dal nostro Archivio.



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2 Comments

  1. Non riesco proprio a trovarmi in accordo con qualsiasi recensione positiva che riguardi i Sigur Rós che, per il sottoscritto (s’intende), sotto alla loro patinata atmosfera nascondono il (quasi) nulla.
    E questo lavoro, ascoltato bene prima di scrivere queste righe, a mio avviso non fa eccezione.
    Ovviamente ognuno ha le sue idee e, quindi, massimo rispetto per quanto scritto nella recensione, sia chiaro.
    Ma, per il sottoscritto, siamo ben lontani anche dalla mera sufficienza.

    1. Usagisan, io gli preferisco nettamente il precedente Með Suð Í Eyrum Við Spilum Endalaust, molto più allegro, meno stagnante, un cambio netto rispetto ai primi lavori. Però se a te non piace nessun disco, forse non è la band per te.

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